I progymnasmata sono letteralmente degli “esercizi preparatori” che gli aspiranti oratori scrissero a partire dal I secolo d.C. Il primo dei quattro manuali superstiti di questi esercizi propedeutici viene attribuito ad Elio Teone, sofista alessandrino, vissuto proprio tra il I e il II secolo d.C. Esistono svariati tipi di progymnasmata che includono: sentenze morali, miti, dimostrazioni e confutazioni di tesi, elogi e invettive, confronti tra diversi elementi, argomentazioni pro e contro una legge, descrizioni, discorsi inventati e attribuiti a personaggi rinomati; spesso costituiscono delle rielaborazioni di celebri episodi storico-mitologici. Si conservano oltre 450 progymnasmata in prosa scritti in greco tra il IV e il XV secolo d.C..
In particolare nell’antologia di testi successivamente analizzati ritroviamo quattro discorsi (ἠθοποιίαι, “etopee”) e tre “narrazioni” (διηγήματα) incentrati sul personaggio di Odisseo[1] e scritti dagli autori bizantini Niceforo Basilace (1115 circa-post 1182), Niceforo Crisoberge (1160 circa-post 1213) e Giorgio Pachimere (1242-1310 circa) e dal retore siro di lingua greca Libanio (314-394); quest’ultimo è il più influente e antico dei quattro, tant’è che sicuramente gli furono attribuiti anche alcuni progymnasmata non suoi (come spesso accadeva per gli autori famosi).
Iniziando l’analisi dal testo di Giorgio Pachimere (Pach. Prog. 2), possiamo notare che il suo elaborato, il quale narra come Palamede riuscì a smascherare Odisseo che si fingeva pazzo per non andare a combattere a Troia, è breve e semplice sia per quanto riguarda la sintassi e il lessico, sia per il fatto che la narrazione è priva di immagini figurate o giochi di parole che vedremo in altri testi. È lecito però chiarire che nell’ultima frase (“risveglia la belva e diventa preda per gli amici”, ἀνασοβεῖ τὴν θήραν καὶ τοῖς φίλοις θήραμα γίνεται) non abbiamo attribuito al verbo ἀνασοβέω la traduzione di “spaventare”, “mettere in fuga” per esprimere l’insorgere dell’impeto in Odisseo e fornire quindi alla frase un significato plausibile.
Il medesimo episodio è narrato in modo altrettanto scorrevole ma con un testo più lungo ed elaborato da Niceforo Basilace (N.Bas. Narr. 15). Si vogliono far notare le riprese lessicali come per le parole ξυμμαχίαν (prima frase) e ξυνεμάχει (ultima frase), e anche alcuni giochi etimologici che vediamo nella coppia di parole μηχάνημα e ἀντιμηχανᾶται oppure ἀργυρογνωμονήσας e γνώμονι. Aggiungiamo che la parola γνώμων indica generalmente un “esperto”, ma nel composto ἀργυρογνωμονέω è usata per indicare l’azione di separare l’argento dalle sue impurità, azione paragonata al disvelamento della falsa pazzia di Odisseo proprio attraverso il giudizio dell’“esperto” sopra citato (ὡς ὑπὸ γνώμονι). Niceforo Basilace scrisse anche una lunga e articolata etopea (N.Bas. Eth. 16) dove usa come locutore fittizio Aiace Telamonio, immaginando i pensieri che avrebbe potuto concepire vedendo Odisseo durante la sua discesa nell’Ade. In effetti, nell’Odissea Odisseo racconta di aver visto Aiace nell’Ade e di avere anche provato a parlargli, ma lui non gli avrebbe risposto (Od. XI 563).
L’etopea presenta uno stile più elaborato rispetto alla narrazione; tale differenza stilistica è dovuta probabilmente al diverso genere letterario.
Per comprendere meglio l’ira di Aiace verso Odisseo chiariamo che i due furono protagonisti di una disputa per le armi del defunto Achille, che culminò con la follia di Aiace scatenata da Atena al fine di rendergli impossibile l’assassinio dei capi greci e con il suo successivo suicidio per la vergogna provata (questa vicenda è l’argomento dell’Aiace di Sofocle). Infatti sia l’atto estremo sia il fastidio del defunto eroe per la vista delle armi di Achille sono elementi presenti nell’etopea e risultano una vera accusa nei confronti di Odisseo, il quale viene presentato come un ingannatore empio. L’immagine fornita è interpretabile come l’opposto di quella omerica che lo definisce un re ideale, ragionevole, accorto e amato dagli dei, in particolare da Atena, divinità protettrice proprio della saggezza. In questo capovolgimento del personaggio Odisseo risulta addirittura ancora più malvagio rispetto a Tantalo o Sisifo, che viene addirittura definito suo padre (riprendendo una leggenda già nota nell’antichità). Inoltre si vuole porre l’attenzione sul collegamento che i tre personaggi hanno con l’elemento della “pietra”: Tantalo fu costretto ad avere vicina una rupe incombente, Sisifo dovette spingere eternamente una pietra su per una montagna e Odisseo, suggerisce Aiace, dovrebbe essere bersagliato con delle pietre per risarcire quelle che fece scagliare dai Greci contro Palamede accusandolo falsamente di essere un traditore.
Un esempio invece di una versione di Odisseo più simile a quella omerica, se così si può dire, ci viene fornito da Niceforo Crisoberge, che in una narrazione (N. Chry. Prog. 7) tenta di ricostruire e riassumere l’episodio dell’eroe greco che si trova ad affrontare il ciclope Polifemo (narrato nel IX libro dell’Odissea). Questo testo è il più complesso commentato finora per via della presenza di giochi di parole, contrapposizioni e immagini alquanto elaborate come “flussi e riflussi di onde” (πολλοὺς διαύλους κυμάτων); il lessico è molto vario e presenta anche dei termini attestati soltanto in questo testo, ossia degli hapax legomena; anche la sintassi è più complessa rispetto alle due narrazioni precedentemente analizzate. Poniamo l’attenzione anche sulla ripresa degli epiteti omerici (πολύτλας, πολυμήχανον, πολύμητις) e dell’epica postomerica (τλησίπονος). Si può notare inoltre una somiglianza nell’uso del verbo “avere” (ἔχω) per indicare un luogo che trattiene un personaggio: viene usato da Niceforo Basilace nella sua narrazione per dire che Elena era trattenuta a Troia (Εἶχεν Ἑλένην ἡ Τροία) e qui da Niceforo Crisoberge al fine di esprimere la prigionia di Odisseo nella grotta di Polifemo (Εἶχε τὸν Ὀδυσσέα πλανώμενον ἐκ Τροίας τὸ κυκλώπειον σπήλαιον); visto che in entrambi i casi εἶχε(ν) si trova in posizione incipitaria, si potrebbe ipotizzare che il Crisoberge intenda qui riprendere esplicitamente il Basilace. Riguardo alla grotta del ciclope, si può sottolineare la minuziosa descrizione a lei dedicata da Niceforo Crisoberge, inaspettata in quanto essa è assente nell’Odissea e sembra presentarla come un locus amoenus, in contrapposizione alla terribile strage che avverrà al suo interno; essa infatti “rasserena” (διαχέειν) chi la guarda ed ora offre ad Odisseo una “tregua” dai suoi patimenti (καμάτου διάδοχον).
Lo stesso episodio ma sotto forma di due etopee (Lib. Eth. 23 e 24) ci viene raccontato dal più significativo di questi autori: il già citato Libanio. Più specificatamente la prima narra l’elaborazione del piano da parte di Odisseo per accecare Polifemo, mentre la seconda le sue sensazioni vedendo i compagni mangiati dal ciclope; in entrambe il locutore fittizio è Odisseo. I testi iniziano ambedue con una presentazione della situazione presente; in uno scritto Odisseo lamenta la drammaticità del destino proprio e dei compagni, mentre nell’altro l’eroe greco si rivolge a Polifemo per rinfacciargli la brutalità dei suoi atti. Proseguono entrambi con un riassunto delle passate imprese di Odisseo. La prima termina con un annuncio degli eventi successivi, tipico delle etopee (che dovrebbero svolgersi, secondo i manuali antichi, seguendo uno schema presente-passato-futuro), in questo caso Odisseo annuncia il suo piano per accecare Polifemo; nella seconda, invece, nel finale mancano accenni al futuro e la conclusione è costituita da un’invocazione che sembra del tutto fuori contesto (ὦ πόλεμοι παλαιοὶ καὶ τάξεις ἀρχαῖαι καὶ μάχαι συνεχεῖς), probabilmente dovuta a una corruttela del testo. Oltre a tale somiglianza, i due testi contengono molte figure retoriche, come nel secondo la similitudine tra i naufraghi nel mare e i compagni di Odisseo nello stomaco di Polifemo (νῦν δὲ εὕρηταί τις ἐν ἀνθρώποις τάφος τοσούτων σωμάτων γαστὴρ αὕτη τὴν ἄσπαρτον μιμουμένη). Si vuole porre l’attenzione anche sulla possibile ironia dell’autore nel definire nel primo testo la grotta del ciclope una αὐλή (τὰ τῆς αὐλῆς ἀποκέκλεισται), termine che designa solitamente un palazzo nobiliare. Interessante anche, sempre nel primo testo, l’uso del verbo διαχειρέω riferito sia a Polifemo sia a Odisseo, quasi ad equiparare i due personaggi: prima viene riferito a Polifemo che uccide i compagni di Odisseo (μικρὸν αὐτῷ κατὰ δυάδας λαβεῖν καὶ διαχειρίσασθαι), poi a Odisseo che ha ucciso Reso (τὸν Ῥῆσον διεχειρισάμην), infine a Odisseo che intende uccidere Polifemo (καὶ πρόκειται, εἴ γε βουλοίμην διαχειρίσασθαι). Ancora nel primo testo, difficile la resa in italiano della frase “né spostare la collocazione della pietra nella porta” (μήτε παρακινῆσαι τὴν ἐν θύραις ἐμβολὴν τοῦ λίθου): il sostantivo ἐμβολή indica il fatto di inserire la pietra nella porta, è difficile trovarne uno equivalente in italiano. Infine nel secondo testo, invece, ci sono due passi in cui Odisseo sembra dire cose errate o implausibili. Nel primo caso, Odisseo dice “Ma io avrei sopportato volentieri i Lestrigoni, affinché i morti avessero delle tombe” (ἐγὼ δ’ ἡδέως Λαιστρυγόνων <ἂν> ἠνεσχόμην, ἵν’ ἔχωσι τάφους οἱ νεκροί) e sembra implicare che quindi, se i suoi compagni fossero stati uccisi dai Lestrigoni in battaglia, sarebbero poi stati sepolti; tuttavia, secondo la narrazione omerica, i Lestrigoni erano cannibali. Nel secondo caso, Odisseo dice rivolgendosi a Polifemo “Hai vinto la malattia pestilenziale che è giunta dall’Etiopia” (νενίκηκας τὴν ἐξ Αἰθιοπίας καταβαίνουσαν λοιμώδη νόσον), sostenendo iperbolicamente che Polifemo abbia causato più vittime di una pestilenza proveniente dall’Etiopia; ma la prima pestilenza proveniente dall’Etiopia nota nella letteratura greca è quella raccontata da Tucidide nella sua storia della guerra del Peloponneso, e quindi è implausibile che Odisseo la citi. Nel complesso, considerando anche questi due casi, la seconda etopea non è soltanto più breve della prima, ma anche inferiore per qualità letteraria.
L’ultimo testo di Libanio, e di questa antologia, è sempre un’etopea (Lib. Eth. 25), ma riguardante le riflessioni che avrebbe fatto Odisseo dopo la strage dei Proci. È lampante la semplicità dell’elaborato rispetto ai due precedenti, tanto da far dubitare della sua attribuzione a Libanio: il lessico è ripetitivo e poco vario, le frasi sono brevi, senza subordinazione e figure retoriche, e non ci sono giochi di parole o immagini con descrizioni più elaborate. L’elemento che però resta costante in tutti e tre i testi è l’inizio con l’analisi della situazione presente da parte di Odisseo, seguita da un riassunto delle sue imprese passate. Bisogna però specificare che gli eventi del viaggio, in quest’ultima etopea, sono riportati sommariamente, in ordine sparso e con alcune omissioni, come se questo pseudo-Libanio fosse quasi sbrigativo nel voler concludere l’esercizio. Il paragrafo finale, come nella prima di queste tre etopee, contiene un annuncio dei fatti futuri (quelli narrati nel XXIV libro dell’Odissea, ossia la riconciliazione coi parenti dei Proci).
[1] Sono almeno 9 i progymnasmata conservati relativi a Odisseo (lista).
Antologia progymnasmata – testo e traduzione
Riccardo Nicoletti (classe 3E – liceo classico)
attività di FSL

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