Fino a che punto ci si può spingere per difendere i membri del proprio gruppo? Quando, invece, si incorre in quella che è la declinazione più violenta dell’azione di gruppo? Questa domanda sorge spontanea leggendo quanto accaduto a Bologna lo scorso 8 marzo, quando un gruppo femminista bolognese si è trovato costretto a denunciare in modo anonimo le violenze, gli insulti e gli abusi subiti da parte di un collettivo universitario autonomo. La causa della disputa e dell’inimicizia tra i due gruppi è stata identificata da parte del movimento transfemminista nell’asilo che il collettivo autonomo sembrava fornire a stupratori e uomini violenti all’interno delle sue file. In occasione di una ricorrenza come l’8 marzo, alcune donne del gruppo femminista, terminato il corteo, si sarebbero allontanate per scrivere alcuni graffiti sulla vicenda come simbolo di opposizione, salvo poi accorgersi di essere state seguite da un membro del menzionato collettivo. L’uomo avrebbe poi chiamato “rinforzi”, con i quali avrebbe braccato, spintonato, aggredito, filmato e perquisito le donne. Sarebbero poi sopraggiunti ulteriori membri a supporto dei compagni. Ciò che però sembra aver colpito maggiormente chi ha riferito il fatto è la presenza tra gli aggressori di alcune donne. L’avvenimento solleva due questioni. La prima, più immediata, riguardante la sconcertante connivenza dei membri femminili del collettivo. Davanti a un fatto così grave ci si aspetterebbe un intervento o, quanto meno, una presa di posizione dalla parte femminile del collettivo, ossia l’opposto di quanto in realtà successo. Che la coscienza delle donne, oltre ovviamente a quella degli altri membri del collettivo presenti durante l’atto, sia stata surclassata da una coscienza di gruppo? Questo porta alla seconda questione, vale a dire la sottile linea che delimita spirito di gruppo e nascente squadrismo. Alla radice di azioni violente di gruppi organizzati si trova, infatti, frequentemente una motivazione legata a un presunto “aiuto reciproco”, che sfocia in casi di inaudita violenza perpetrata spesso per motivi tra i più disparati. Ha dunque senso additare al collettivo in quanto la colpa di quanto accaduto? Sicuramente no, perché l’ideale di giustizia sociale dei collettivi è in totale contrasto con atti come questo. Ciò che il collettivo avrebbe dovuto fare è applicare i suoi principi, ma non l’ha fatto perché intrappolato nella morsa del gruppo, per cui ha visto come priorità difendere i suoi membri; questo però è un tradimento dell’idea del collettivo, e va combattuto rafforzando e applicando tale idea.
Andrea Campanelli (classe 3A – liceo classico)
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