Negli ultimi tempi il filosofo e psicoanalista Umberto Galimberti sta portando in giro per le diverse città italiane la presentazione del suo nuovo saggio filosofico: “L’etica del viandante”. L’etica del viandante è il modo di abitare la nostra drammatica epoca che il filosofo definisce “era della tecnica”. Essa trova la sua origine nel periodo del nazismo poiché i capi dei campi di concentramento dichiararono di non avere senso di colpa per quanto compiuto poiché furono efficienti mezzi di un sistema. L’individuo era, quindi, utile se e solo se alimentava il fenomeno iniziando così a perdere ogni valore che non servisse tale scopo.
Da quel momento la tecnica è divenuta la condizione unica e necessaria perché la nostra società funzioni, costituendo pertanto, come riporta Marx, non più il mezzo ma il fine dell’uomo. Inoltre, il fenomeno è aumentato quantitativamente e di conseguenza, secondo ciò che ci dice Hegel, si è plasmato radicalmente anche l’ambiente che lo circonda, destinandolo ad una crisi già preannunciata da Nietzsche e che Galimberti riporta schiettamente. Nietzsche profetizza l’età del nichilismo e la descrive in tal modo: per prima cosa afferma che in essa non c’è “scopo” e difatti la tecnica è un ente che agisce solo in funzione del suo potenziamento e lo fa in maniera imprevedibile causando spaesamento nell’individuo. Basti pensare alla comune casualità delle scoperte scientifiche, che sono molto impattanti sulla vita di tutti noi. Secondariamente annuncia che non c’è una risposta al “perché della vita” ,in quanto nel presente siamo costretti ad essere parte del sistema che, come preannunciato, è l’unica cosa in grado di dare un senso e un’identità all’individuo all’interno della società. Quest’ultimo è condannato ad un’esistenza vuota e monotona oppure a tentare disperatamente la ricerca di un futuro migliore.
Ed è così che i giovani perdono l’ambizione e si abbandonano a ciò che li devia da questo tormento come l’alcol e gli stupefacenti. Giunge poi il folle profeta nietzschiano, Zarathustra, il quale porta la destabilizzante notizia della “morte di Dio”, la quale oggi comprendiamo in maniera più che evidente potendo immaginare la nostra società senza di esso ma non priva del mercato, del denaro e della tecnica. Con questa espressione il filosofo tedesco illustra il crollo dei valori, in favore di quelli già citati e decisamente peggiori. Vi è pertanto la fine dell’ottimismo religioso legato alla possibilità di un futuro perdono dei peccati e della provvidenza divina. E alla fine della religione si accompagna l’annullamento del progresso, portato da tutte quelle figure che avevano la religione intrinseca nella loro cultura. Lo stesso Marx, pur essendo ateo, vedeva nel passato ingiustizia sociale, cioè peccato, nel presente rivoluzione, ovvero perdono, e nel futuro giustizia, quindi pace sulla terra. In questo dramma cade anche la pratica della riflessione, che necessita di un processo a lungo termine contrapposto a quello veloce ed efficiente della tecnica. L’uomo però, come già detto, deve trascendere questa situazione per accedere ad una migliore, e così Galimberti arriva a illustrare la figura del “viandante”: un ente che viaggia per fare esperienza del mondo vero e proprio e non attraverso uno schermo elettronico e accetta le differenze che trova lungo il cammino e impara da esse, non le reprime e non le combatte. Il viandante ripudia la cultura cristiana, che ha portato la concezione dell’uomo da essere mortale, come lo definivano i Greci, ad uno capace di trovare un’altra vita dopo la morte. L’uomo ha assunto così una tale importanza che è sfociata nell’antropocentrismo, principio distruttore della nostra amata terra. Il viandante ha, invece, l’umiltà di mettersi sullo stesso piano della natura, assumendo una visione biocentrica.
Galimberti riprende poi l’opera kantiana “per la pace perpetua” quando dice che il viandante vuole quest’ultima dentro e fuori dallo stato, sostiene la condivisione dei beni e il passaggio ad una maggiore importanza della comunità mondiale, opponendosi pertanto alla sovranità dello stato, nemica di questo progetto cosmopolita. Il filosofo contemporaneo pretende, quindi, una vera e propria rivoluzione, un cambiamento radicale e necessario, un modo di vivere innovativo. Così noi giovani ci ritroviamo a vivere un’era veramente complessa e Galimberti si rivolge a noi dicendo: ”Una cosa vorrei ricordare ai giovani: se è vero che il futuro non li attende, è altrettanto vero che loro il futuro ce lo avranno di necessità, il futuro è comunque loro e che se lo prendano questo futuro”.
Riccardo Nicoletti (classe 2D – liceo classico)
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