Il film, che affronta temi sociali e politici, è ambientato in una piccola città mineraria in disuso situata nei pressi della città di Durham, nel nord dell’Inghilterra. Nel corso degli anni la comunità, ormai abbandonata a un inesorabile declino, dove un tempo una miniera di carbone forniva il sostentamento a molte famiglie, sperimenta un progressivo popolamento di rifugiati siriani in fuga dalla guerra. La gente del posto si è
impoverita, le case vengono vendute all’asta per una manciata di sterline e poi magari usate per alloggiamenti provvisori dei profughi.
Un gruppo di residenti che appartengono alla parte più conservatrice reagisce a quella che considera un’invasione vera e propria e basa le proprie argomentazioni partendo da pregiudizi e presupposti sbagliati: detestano l’idea di entrare in contatto con chi potrebbe contaminare le loro abitudini e vedono la loro presenza come una limitazione alla già limitata disponibilità che la piccola città può offrigli.
Tutto il film ruota intorno a un vecchio e malandato pub “The Old Oak” che dà titolo al film. Il locale è l’ultimo pub rimasto in città e stenta sempre di più a restare aperto, i clienti sono ormai pochi e l’economia del posto è bassa dopo la chiusura delle miniere. Il pub è ora uno dei pochi spazi pubblici rimasti nel quartiere. All’interno del vecchio pub il signor Ballantyne lavora per cercare di tenere in vita quel luogo al quale è legato da vecchi ricordi. Per cui, all’arrivo dei rifugiati siriani mal visti dalla comunità dei locali, lui sta dalla parte dei rifugiati riparando gratuitamente una macchina fotografica alla gentile e giovane ragazza di nome Yara, appena arrivata in città, oppure svolgendo consegne alimentari con una social worker guidando un pulmino per portare beni di prima necessità ai profughi. Non è l’unico a pensarla in questo modo, compiendo buone azioni. Anche altri mostrano benevolenza verso i nuovi arrivati, giungendo addirittura ad allestire una mensa comune gratuita in una sala del pub per facilitare l’integrazione dei profughi siriani. Nella sala sul retro del pub, a fianco delle vecchie foto dei minatori appese al muro campeggia una frase: “If we eat together, we stick together” (“Se mangiamo insieme, stiamo uniti”). Parole semplici che diventano fondamentali in una società dove il cibo non rappresenta solo l’unico modo per sopravvivere ma è qualcosa di più: speranza, voglia di esistere e di continuare a vivere. Nella convivialità creata intorno alla tavola, dove inglesi e siriani consumano il loro pasto la conoscenza dell’altro e le buone intenzioni riescono ad emergere e ad abbattere ogni ostacolo. Si tratta in realtà di piccoli gesti ma di grande valore se vogliamo sforzarci di costruire un mondo più giusto e più accogliente. In realtà, il mondo a cui noi tutti, nessuno escluso dovremmo aspirare. Al contempo il vecchio pub è frequentato spesso dagli stessi clienti da anni che nella noia cercano di dare un senso alla loro vita ma finiscono per rinchiudersi ancora più in sé stessi divenendo degli emarginati che non sanno prendere decisioni. Per esempio, non vedono di buon occhio l’arrivo dei migranti e pensano che il modo migliore per evitare l’arrivo di altre persone sia quello di provocare un incidente in modo da far bruciare il piccolo locale mensa divenuto punto di riferimento non solo per i siriani ma anche per gli stessi residenti. È proprio questo il miracolo del regista Ken Loach: riuscire a promuovere la speranza e la solidarietà superando tutti gli ostacoli per un mondo migliore che passa necessariamente attraverso la conoscenza dell’altro, la condivisione e l’integrazione.
In conclusione, la visione del film aiuta a comprendere meglio il problema della diversità, perché tra i personaggi non ci sono buoni e cattivi, solo persone annoiate e rese infelici dalla propria condizione di miseria morale che li rende aggressivi nei confronti di chi indifeso cerca solo un tetto per dormire per sé e per i propri figli, per sfuggire a un destino avverso verso il quale non ha colpe. In un mondo in continuo movimento dobbiamo tutti educarci ad avere un’identità universale per superare le mille barriere che mettiamo tra noi quando ci rifiutiamo di conoscere l’altro solo perché parla un’altra lingua, professa un’altra religione o viene da un altro luogo.
Yasmine Coppola (classe 2C – liceo classico)
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