Nel febbraio di quest’anno, in una lettera al Dipartimento di Servizi a Protezione della Famiglia (DFPS), il governatore texano Greg Abbott ha riconfermato l’assistenza medica per l’affermazione di genere nel caso dei minori come abuso minorile.
Oltre al fatto che questa nuova legge andrà a impattare drasticamente sulla vita dei bambini trans e delle loro famiglie, si aggiungono gli obblighi espliciti imposti agli operatori sanitari: è una politica che ingiunge ai medici di denunciare quei genitori che cercano assistenze affermative di genere per i propri figli, rendendo di fatto impossibile per queste famiglie aiutare i loro figli trans senza rischiare un’inchiesta per abuso e, potenzialmente, la perdita della custodia del bambino. Abbott ha proseguito poi nel definire il civile medio un watchdog (“cane da guardia”), esortando a denunciare eventuali genitori sospetti. Si tratta di un’investitura di vigilanza comparabile al diritto di accusa, da parte di cittadini privati, verso le donne in violazione del recente decreto texano Senate Bill 8 contro l’aborto. Non per nulla sono già stati approntati fondi di crisi per famiglie bisognose di una protezione legale, o addirittura di una rilocazione in stati più vivibili.
Questa legge statale – la più recente in questa raffica di legislazione anti-trans in Texas – è stata dichiarata incostituzionale dal giudice Amy Clark Meachum, dopo una contestazione legale indetta dai genitori di una ragazza transgender di 16 anni. Non prima, però, che la famiglia si sia trovata tra i primi indagati dal DFPS.
Il rischio legislativo immediato pare dunque scansato; tuttavia le increspature sono ben più insidiose.
Le dichiarazioni di Abbott non si limitano a travisare il trattamento medico disponibile per i bambini trans i quali, prima dell’inizio della pubertà, ricevono cure non mediche incentrate sulla transizione sociale. La scelta, ad esempio, di un nuovo nome e un adattamento al vestiario, cambiamenti di genere incoativo e reversibili se necessario, la disposizione di un supporto mentale e strutturale, come le scuole che usano i pronomi di genere preferiti dal bambino e consentono loro di usare il bagno allineato con l’identità di genere. Abbott procede a demonizzare questo apparato di supporto, caratterizzando come “mutilazioni” gli interventi di affermazione del genere e l’identità trans come un contagio “promosso” da operatori sanitari e educativi a bambini altrimenti normali.
Si tratta di una retorica alquanto familiare per alcuni: non sono poche le similitudini con la Section 28 del Regno Unito, in vigore dal 1988 al 2003, che vietava la “promozione dell’omosessualità o l’insegnamento in qualsiasi scuola mantenuta dell’accettabilità dell’omosessualità come presunta relazione familiare”. Beninteso, l’accusa di “promozione” era funzionale a bandire dalle aule scolastiche ogni e qualsiasi forma di discussione sull’argomento. Ai bambini fu negato l’uso dei termini attraverso i quali comprendersi, mentre gli insegnanti queer dovettero dissimulare i loro stili di vita e recitare una meglio accetta normalità. Tutto nel nome della famiglia, un canone eterosessuale da difendersi a costo di quelle vite omosessuali scomode.
Queste leggi non sono affatto limitate a momenti specifici del passato né a specifiche zone di promulgazione: oltre al Texas, oltre 20 altri Stati hanno introdotto una legislazione ostile ai supporti per l’affermazione del genere per gli adolescenti. Uno di questi è il progetto di legge incaricantesi dei diritti dei genitori nell’istruzione approvato il 28 marzo dal governatore della Florida, Ron DeSantis. Tra le sue misure controverse, la legge vieta l’istruzione sull’orientamento sessuale e l’identità di genere dalla scuola materna alla terza elementare.
“Faremo in modo che i genitori possano mandare i loro figli a scuola per ricevere un’istruzione, non un indottrinamento”, ha detto DeSantis alla firma del disegno di legge, “e combatteremo l’ideologia di genere”. Questo in un paese in cui la ricerca statistica rileva che il 42% dei giovani LGBTQ ha preso seriamente in considerazione l’ipotesi del suicidio nell’ultimo anno.
La statistica si fa particolarmente grave nel caso dei giovani trans. Secondo uno studio, il 62% dei giovani trans – per un’altra indagine, l’80% – ha seriamente contemplato l’idea del suicidio durante l’anno in corso. D’altro canto, molte ricerche testimoniano una migliore condotta della vita fra gli adolescenti che beneficiano di strutture di affermazione di genere e che hanno alle spalle famiglie e istituti scolastici accoglienti, rispetto a quelli ragazzi che invece ne sono sprovvisti. I tassi di disagio psicologico, di ideazione suicidaria e di tentato suicidio sono come minimo dimezzati e con essi anche i tassi di depressione.

Sorge a questo punto il contrasto spiccato tra gli anzidetti moti legislativi negli Stati Uniti e un fenomeno recente e in corso in Italia. Nello specifico, gli atenei e istituti liceali italiani stanno lentamente ma consistentemente integrando nei rispettivi regolamenti, la carriera alias, uno strumento che consente allo studente che lo richiede di avvalersi del nome che preferisce; così facendo si intende creare all’interno dei corridori scolastici un profilo identitario calzante per gli studenti. Come afferma il Liceo Russoli di Pisa: “si tratta di una buona prassi che evita a queste o questi studenti il disagio di continui e forzati coming out e la sofferenza di subire possibili forme di bullismo”.
Poiché in Italia si stima una quota di abbandono scolastico tra i ragazzi transgender di circa il triplo rispetto ai coetanei cisgender e considerando anche che il numero dei ragazzi trans nel paese, pur aumentando gradualmente, rimane esiguo proprio a causa dell’ostilità istituzionale contro le loro identità, la carriera alias è un piccolo ma gradito passo nella direzione dell’ammenda.
Il primo ateneo italiano a dare la possibilità di adottare la carriera alias è stata l’Università di Torino nel 2003, seguita dall’Università di Bologna e la Federico II di Napoli. I numeri certo non sono certo impressionanti – di 68 atenei pubblici, 32 in tutto offrono la possibilità agli studenti di iscriversi con la carriera alias, mentre dei 57.831 istituti scolastici, solo cinque. Persiste per giunta una questione di normatività, una certa tendenza linguistica e concettuale nel privilegiare modelli di genere binari e facilmente intellegibili, laddove in realtà numerosi studi riportano che tra il 35% e il 50% degli italiani transgender si identificano come non-binari.
Il problema più saliente però, se non stravolgente, è la medicalizzazione generale. Il maggior numero dei regolamenti scolastici che si preoccupano della carriera alias, invero, fissano come clausola di concessione una diagnosi formale di disforia di genere – definita come la condizione di intensa e persistente sofferenza causata dal sentire la propria identità di genere diversa dal proprio sesso.
Prima dell’attivazione della carriera alias dunque è necessario che sia fornita prova di un percorso psicologico tale da ratificare la veridicità dell’identità autodichiarata della persona appellante; un requisito che dunque impone ai ragazzi genderqueer di arruolarsi a una lista di attesa che sovente eccede i dodici mesi per il solo primo incontro con uno psicologo. Questa lunga attesa non è affatto recente, né caratteristica della sola Italia. La fila d’attesa nella clinica nazionale di genere del Regno Unito, per citare un esempio fra molti, conta oltre 10.648 persone che ancora aspettano il primo appuntamento per quella che quasi universalmente è un’assistenza imperativa. Quella stessa clinica ha di recente iniziato a prendere in carico persone riferite ai loro servizi nel 2017.
Queste interminabili attese – che, il più delle volte, spingono le persone trans a cercare cure in cliniche private con costi spesso esorbitanti, oppure talvolta a procurarsi gli ormoni del mercato nero – derivano dal sistema segregato dell’assistenza sanitaria trans. Le persone genderqueer devono farsi strada attraverso un percorso spesso a corto di personale e sottofinanziato, tutto al fine di accedere a medicinali o a servizi quasi immediatamente disponibili per pazienti cisgender, senza necessità di un certificato di verifica. Nel Regno Unito, ad esempio, le persone trans sono tenute a fornire la prova di aver “vissuto nel loro genere identificato per un minimo di due anni” prima che i loro dati anagrafici siano corretti – indipendentemente dalle condizioni di ostracismo sociale e di lotta economica che possono rendere apertamente una vita trans effettivamente impossibile. In breve, il problema è che si tratta di un monopolio delle risorse mediche nelle mani di un apparato ormai da tempo obsoleto, che ancora dipende dalla normativa della disforia, un marchio diagnostico che fino al 2013 era classificato come un disturbo psicologico.
Inoltre, in Italia come in molti altri Paesi, il riconoscimento legale dell’identità di genere è subordinato a una transizione medica “completa”, nonostante il fatto che non tutte le persone genderqueer modellano i loro desideri su uno standard corporeo normativamente cisgender.
La soluzione a questa sfilza di problemi è semplice, e anzi già codificata in numerosi contesti. Sono 17 i Paesi che hanno integrato l’autodeterminazione ai loro percorsi di riconoscimento legale: un paradigma per cui il sesso o il genere legale dovrebbero essere determinati dalla loro identità di genere senza alcun requisito medico. È uno degli obiettivi principali del movimento per i diritti dei transgender; tant’è che i sostenitori dell’autoidentificazione riportano che nei sistemi medicalizzanti – come, fra gli altri, l’iter italiano – i requisiti medici potrebbero costringere le persone trans a sottoporsi a un intervento chirurgico per vedersi riconosciuto legalmente il genere, oltre a controlli psicologici spesso invadenti e umilianti, e che l’autoidentificazione renderebbe più facile per le persone transgender vivere senza la sofferenza quotidiana di pregiudizi.
È dunque tanto più importante non passare sotto silenzio le piccole ma nondimeno epocali scelte intraprese a livello locale. Due questi esempi si trovano entrambi a Pisa: il Liceo Artistico F. Russoli e, a febbraio di quest’anno, l’Istituto di Istruzione Superiore Galilei Pacinotti.
Il Liceo Russoli, in particolare, ha esplicitato nel proprio regolamento le ragioni della scelta depatologizzante: “nessuna certificazione medica/psicologica viene in questa sede richiesta dalla Scuola e neppure necessariamente presentata dalla/dallo studente trans o dalla famiglia/tutore: la varianza di genere non è una malattia ma una espressione sana delle tante possibilità del genere umano”.
Un piccolo grande passo verso la civiltà.
Alice Whitehead (classe IIB – liceo classico)
Complimenti per l’articolo, rigoroso e documentato su un tema importante e non semplice – trovo il livello della trattazione superiore a quello di molti pezzi di testate nazionali.