Gustav Klimt: uno di quei nomi che nell’ultimo secolo di storia è riuscito a insinuarsi più vividamente nell’immaginario collettivo europeo. Klimt è figlio della società viennese della Belle Epoque, vivace e assai dinamica nella sua costituzione prevalentemente borghese, e padre non esclusivo della corrente artistica secessionista. Si muove attorno a figure quali Freud e Loos, nella loro erotizzante visione della vita: è impensabile immaginare che il clima culturale della nuova psicanalisi freudiana, del “Tutta l’arte è erotica” , non lasci la sua fortissima impronta su Klimt, che anzi con le sue opere ne diventa uno dei principali contributori, se non il più importante.
Klimt nasce il 14 luglio 1862 a Baumgarten, Vienna, da una famiglia di modeste condizioni. Il padre Ernst, immigrato boemo, è orafo; della passione della madre Anna, la musica lirica, v’è traccia ricorrente nella sua produzione artistica: basti pensare alla Musica I e II o al Fregio di Beethoven. Insieme al fratello minore Ernst viene ammesso alla Scuola di Arti Applicate, la Kunstgewerbeschule, ancor prima di aver compiuto quattordici anni. Questo è il periodo in cui entra in contatto con l’immaginario classico, ancora così presente nell’arte tradizionale, a cui riserverà sempre spazio nelle sue opere.
La sua carriera inizia nel 1880, quando, insieme al fratello e all’amico Franz Matsch, riceve l’incarico di affrescare quattro allegorie a Palazzo Sturany e successivamente il soffitto della Kurhaus, a Vienna.
Sin dagli esordi, Klimt non accenna a dissimulare una concezione dell’arte ben diversa dalla contemporanea, una concezione che muoverà la società perbenista viennese a gridare allo scandalo. Un’interpretazione ben riassumibile per altro nella dichiarazione del padre spirituale della Secessione, Hermann Bahr: “Vogliamo dichiarare guerra alla sterile routine, al rigido bizantinismo, a tutte le forme di cattivo gusto. […] La nostra secessione non è una battaglia degli artisti moderni contro i vecchi, bensì una lotta per affermare la superiorità degli artisti sui mercanti ambulanti che si spacciano per artisti e hanno interesse ad impedire la fioritura dell’arte.” . Non deve quindi risultare affatto sorprendente che sia proprio Klimt a realizzare il manifesto per la prima mostra di arte secessionista a Vienna: è da questo punto ella storia che si apre la mostra “Klimt. La Secessione e l’Italia”, nata grazie alla collaborazione tra il Belvedere di Vienna, la Klimt Foundation, la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, e co-prodotta da Arthemisia. Curata da Franz Smola, Maria Vittoria Marini Clarelli e Sandra Tretter, si è tenuta dal 27 ottobre 2021 al 27 marzo 2022 a palazzo Braschi, a Roma.
Entrando nella prima sala espositiva si è avvolti dall’atmosfera della frenetica Vienna di inizio 1900: spiccano il manifesto della seconda mostra della Secessione viennese di Olbrich, e naturalmente quello della prima mostra del 1898, di Klimt: Teseo e il Minotauro, dal forte valore simbolico. Il profilo in primo piano di Pallade Atena, simbolo della sapienza divina, apre sullo sfondo alla vista della lotta tra Teseo, incarnazione del nuovo, ed il Minotauro, ovvero il conservatorismo, che viene costretto alla fuga: critica che apre alla genesi di un nuovo tipo di arte, ma che mai dimentica le proprie radici classiche e antiche.
Nel corso di tutta la mostra, articolata in quattordici sezioni, si è accompagnati al fianco di Klimt dalla presenza costante degli altri esponenti di punta della Secessione viennese: da Koloman Moser a Carl Moll, da Schiele a Hoffmann, dal già menzionato Olbrich a Mackintosh: appare allora in tutta la sua forza e completezza l’atmosfera artistica della Vienna secessionista. La variegatezza nel linguaggio artistico è notevole e lascia presagire la fine prossima di un movimento di per sé diviso e polimorfo, mentre tra tutte spiccano particolarmente le produzioni klimtiane nelle loro varie fasi, fra cui le più conosciute: la Giuditta I o Salomè (1901), la ricostruzione digitale dei cosiddetti Quadri della facoltà (Medicina, Giurisprudenza, Filosofia, 1900-7), la ricostruzione del Fregio di Beethoven (1902), per poi giungere al Ritratto di Signora (1917) e al non finito La Sposa (1918), protagoniste rispettivamente delle sezioni sesta, ottava, nona, settima e quattordicesima.
Opere che testimoniano la profonda impressione maturata da Klimt durante i viaggi in Italia, meta preferita di un artista che non amava viaggiare. Nel 1899, scenario della passione amorosa verso la figliastra dell’amico Moll, Venezia si aprirà per la prima volta al suo sguardo; ma è Ravenna, nel 1903, a irretirlo indissolubilmente con i suoi mosaici bizantini: come scrive in una cartolina all’amante Emilie Flöge: “[…] a Ravenna tante povere cose – i mosaici di uno splendore inaudito”. E la sua arte esplode, in seguito, nel cosiddetto “Periodo aureo”, caratterizzato, oltre che dall’uso dell’oro e dalla bidimensionalità spaziale tipici di questo tipo di arte, anche da uno spiccato simbolismo erotico e dalla donna vista come femme fatale, “non più Venere ma Ninì”, non ideale creatura metafisica, ma carnale, simbolo dell’eros e della passione che troneggia sulla tensione puramente intellettuale caratteristica dell’arte classica e della sua Venus pudica. Ma questa fase trova già espressione ancor prima dell’Italia, nella Giuditta I del 1901. Il dipinto ritrae l’eroina biblica Giuditta che tiene in mano la testa del nemico assiro Oloferne: un tema carissimo all’arte di tutti tempi, che trova espressione frequentissima durante il Rinascimento con Donatello, Mantegna, Giorgione, Tiziano, Michelangelo, Caravaggio, Gentileschi, e che proseguirà nei lavori di Rubens e molti altri. Giuditta è rappresentata nei modi più svariati e cruenti, ma in nessuna opera arriva a calzare la stessa dimensione di erotica pericolosità che le attribuisce Klimt: la testa di Oloferne passa quasi inosservata, in basso a destra, mentre l’occhio dello spettatore è inevitabilmente attratto dall’esplosione di oro e dalla posizione che il corpo protagonista assume nello spazio. Ben poco rimane della tipica raffigurazione tradizionale dell’eroina biblica, che si trasforma invece nella donna moderna, nella femme fatale lontana, nella sua materialità, da ogni possibile valore religioso: così indicano l’acconciatura e la collana, di gusto tipicamente viennese. Nella Giuditta, simile indagine si articola nell’analisi del complicato rapporto tra eros e thanatos, tra amore e morte, che sotto la spinta del clima culturale vigente diventa espressione del problematico rapporto tra l’uomo e la donna, nata castratrice e punitrice del peccato. Il periodo aureo, dopo opere come il Ritratto di Adele Bloch-Bauer del 1907, che nel suo decorativismo ne costituisce l’apice, al pari del famosissimo Bacio (1908), Bisce d’acqua (1908), ed il Fregio di Beethoven risalente al 1902, culmina nella Giuditta II: dopo otto anni, Klimt torna sul soggetto isolandolo quasi nella sua individualità, e dando profondo risalto all’immagine femminile nella sua sessualità e fisicità.
Nell’esposizione una sala è interamente dedicata, con una fedele ricostruzione, al celebre Fregio di Beethoven, realizzato in occasione della quattordicesima mostra secessionista, nel 1902: lungo 34 metri, può essere interpretato come la visualizzazione in immagini della Nona Sinfonia di Beethoven. Di nuovo appare la decorazione color oro, e l’atmosfera si fa strada tra simbolismi calati sia nel mondo cortese che nella classicità antica: sulla parete di sinistra, figure femminili fluttuanti rappresentano, nella loro sinuosità, il cosiddetto “anelito alla felicità”. Il quale, prima di giungere a destinazione, affianca tre nudi, le sofferenze dell’umanità, mentre implorano il cavaliere che lotta per loro, in nome della Compassione e dell’Ambizione alle sue spalle; poi le cosiddette “forze ostili”: il gigante Tifeo, o Tifone, proveniente dalla mitologia greca, che deve le sue origini all’amore per l’antico mai abbandonato da Klimt, affiancato a sinistra delle tre Gorgoni sue figlie e dalle bellissime Lussuria, Impudicizia e Incontinenza, a destra. Più lontano è accovacciata l’Angoscia, mentre i desideri e le aspirazioni dell’uomo ritornano fluttuando sulla parete adiacente e avanzano verso la Poesia, rappresentata, secondo un gusto per l’antico e la musica tutto klimtiano, come una donna che suona la cetra (Musica I e II, Manifesto per la prima mostra della Secessione, Pallade Atena), in cui l’anelito si placa. Disposte verticalmente sono le Arti, che precedono il coro degli angeli celesti mentre evoca il finale della Nona Sinfonia: loro dovere è condurre nel regno ideale in cui si possa trovare pace, felicità, e amore, come testimonia il dolce abbraccio finale, la sintesi e la pacificazione tra i sessi. Un programma di immagini profondamente legato all’antico, per temi e simbolismi, quanto per il messaggio che vuole esprimere, allo stesso tempo profondamente moderno.
Una simile visione della società e, più generalmente, dell’umanità intera, compare nei Quadri della facoltà, realizzati su commissione del Ministero dell’Istruzione austriaco per il soffitto dell’Aula Magna dell’Università di Vienna. Klimt, che si incarica dell’esecuzione delle allegorie di Filosofia, Medicina e Giurisprudenza, si scontra con l’indignazione del pubblico e dello stesso contesto politico, accusato di aver celebrato la “vittoria delle tenebre sopra ogni cosa” anziché il trionfo della luce della razionalità sull’oscurità dell’ignoranza, come da richiesta. Due dei dipinti delle facoltà finiranno nelle mani di un privato, uno entrerà in una collezione museale; tutti e tre saranno distrutti negli ultimi giorni del secondo conflitto mondiale. Dietro si sono lasciati solo fotografie in bianco e nero, ad oggi abilmente sfruttate nella recentissima ricostruzione e digitalizzazione a colori presentata per la prima volta proprio durante il percorso espositivo.
Tutte e tre le raffigurazioni sono caratterizzate da una visione dell’umanità piuttosto cupa e pessimistica: nella Filosofia quanto nella Medicina, la componente umana è avviluppata in un’amalgama turbinosa e inscindibile, senza alcun controllo su di sé o sul mondo esterno. L’uomo è in balìa del destino, della morte, di se stesso, perfino della stessa giustizia sociale, rappresentata dal mostro marino della Giurisprudenza. La razionalità, estraniata dal turbine umano, non è sufficiente per uscire dall’oscurità, e sono le forze ben più potenti del caso, della morte, del destino, a governare: si può ben immaginare come una visione così radicale, e controcorrente al clima di fiducia intellettuale della Belle Epoque, unita all’eroticismo e alla fisicità marcati, siano apparsi in un primo momento estremamente scandalosi.
Di una simile carica polemica sono invece totalmente privi i paesaggi, a cui il pittore si dedicherà a partire dal 1900 come esercizio meditativo personale. Personale è, del resto, anche il contesto in cui questi dipinti si sviluppano: le annuali vacanze in compagnia della famiglia Flöge, dove scorci idealizzati e paradisiaci prendono vita, come Dopo la pioggia (1898). L’Italia torna a far presa sulla sua immaginazione negli scorci più tardi, quando i frammenti di un intero universo naturale si focalizzano su vedute urbane e architettoniche che toccano una iniziale concezione cubista: ne sono esempio La chiesa di Cassone e le Vedute di Malcesine, concepiti sul Lago di Garda durante l’estate 1913.
I legami con l’Italia vanno, a questo punto, diradandosi: l’esposizione è quasi giunta al suo termine. Rimangono da menzionare date chiave come il 1911, anno in cui l’arte di Klimt figura nel padiglione austriaco dell’Esposizione Internazionale di Roma con Il bacio, alcuni ritratti, Bisce d’acqua I, La Morte e la Vita, ed ancor prima il 1899 ed il 1910, per la sua partecipazione alla mostra Biennale Internazionale d’Arte di Venezia, con Le amiche, Bisce d’acqua II, e molti altri dipinti.
Al visitatore rimane ormai ben poco da scoprire, esplorato già lo speciale rapporto di Klimt con la nostra penisola, e la mostra regala l’ultimo capolavoro prima di concludersi: l’opera incompiuta La sposa.
Nonostante la morte sopraggiunga improvvisamente a interromperne la realizzazione, in molti punti la raffigurazione risulta pressoché completa e, dove non lo sia, fornisce un interessante scorcio sulle modalità di esecuzione artistica di Klimt: l’eros e la carnalità risaltano di nuovo in primo piano persino nella costruzione del dipinto, avviata con il disegno di forme nude ed essenziali, solo gradualmente coperte e trasfigurate dall’uso sgargiante del colore. Il tema del dipinto appartiene, non a caso, alla stessa sfera concettuale, dell’amore e del desiderio sessuale. Al centro il corpo della sposa non risalta particolarmente nel suo protagonismo, nascosto in larga parte da un gruppo di donne che, serrate strettamente, in parte nude e in parte vestite, simboleggia l’universo del sogno, immancabilmente volto all’amore e alla passione.
Un universo che, d’altronde, nei suoi contenuti come nella forma, non ci è affatto estraneo. L’influenza di Klimt si ripresenta pressoché costantemente negli ultimi due secoli, anche nella cultura di massa: al solo sentirne menzionato il nome, moltissimi subito viaggiano con la mente al suo decorativismo orientaleggiante e mosaicale, ed i bambini si divertono guardando serie animate come Mia and me (2011).
Bibliografia e sitografia
- G. Neret, Klimt – Il mondo in forma di donna, Taschen, ed. 2021
- http://www.museodiroma.it/it/mostra-evento/klimt-la-secessione-e-l-italia
- https://www.raicultura.it/arte/articoli/2021/11/Klimt—2e10298e-95bc-4562-8c23-f1018ec204ec.html
- https://www.turismo.ra.it/myravenna/stories/gustva-klimt-a-ravenna/
Anna Taccola (classe IID – Liceo classico)
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