‘’Spingendo la notte più in là’’ è la storia che Mario Calabresi, oggi giornalista di ‘’Repubblica’’, racconta della sua famiglia colpita dal terrorismo nell’Italia degli anni ’70.
Il padre dell’autore, il commissario Luigi Calabresi, fu ucciso con due colpi di pistola, a Milano, il 17 maggio del 1972 , davanti alla sua casa. La moglie del commissario e i suoi tre figli, di cui il terzo in arrivo, si trovarono soli a dover affrontare l’indifferenza pubblica e l’oblio collettivo nel clima di odio di quegli anni, soli a dover sopportare il fatto che i mezzi di comunicazione descrivessero un Calabresi diverso da ciò che era stato, accusandolo della morte dell’anarchico Pinelli, caduto dalla finestra del suo ufficio durante gli interrogatori per la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano.
Ma non si tratta unicamente della storia della famiglia di Calabresi. Nel libro si parla di tutti coloro che hanno continuato a lottare per la memoria e il rispetto di una persona amata o di un proprio familiare dopo la sua morte. E si parla anche di coloro che non sono riusciti ad andare avanti, soffocati dal sentimento di odio e divisione provato nei confronti del terrorismo degli anni ’70. È una vicenda privata che si allarga quasi a scrivere le pagine della Storia di tutti noi.
L’intenzione di Mario Calabresi è evidente sin dalla scelta del titolo: la volontà di ripartire dalla tragica vicenda per ricostruire la propria identità e memoria senza permettere che sentimenti quali odio, aggressività e rancore ostacolino questo cammino di rinascita.
Tale percorso sarebbe stato impossibile per l’autore senza il costante supporto di una madre intelligente e forte, che si ritrovò a crescere i propri figli da sola. “Trovò un lavoro come insegnante di religione alle elementari e ci provò con tutta l’energia che può avere una donna di ventotto anni. Ci riuscì con la nostra complicità e con una fede nella vita e in Dio che non ha mai avuto cedimenti.”, ci racconta Calabresi.
Una madre che ha saputo insegnare ai propri figli a non arrendersi facendosi sopraffare dal desiderio di vendetta ma a rialzarsi, animati dal senso di giustizia e di verità. Calabresi ci offre un ritratto della madre che non appare come immune dal dolore o fredda ma, al contrario, come una donna consapevole della propria disgrazia e dell’importanza di sostenere con coraggio i propri figli a rintracciare i frammenti della vita del padre, per costruirne un’immagine e un ricordo che non si identifichi con l’immagine che i politici e le istituzioni diedero del commissario Calabresi.
Mario Calabresi dedica poi alcune pagine agli incontri che ha avuto con altre persone i cui cari sono stati vittime del terrorismo e ciò ci permette di considerare anche altri punti di vista dai quali possono emergere invece soprattutto sofferenza, rancore e ancora profondo odio per l’abbandono e il disinteresse da parte delle Istituzioni politiche.
Fino in fondo l’autore si mostra sempre in pace con se stesso e con gli altri, con il ricordo del padre che lo accompagna dandogli forza. “Dovevo portarlo con me nel mondo, non umiliarlo nelle polemiche e nella rabbia, così non lo avrei tradito. Bisognava scommettere tutto sull’amore per la vita. Non ho più cambiato idea.”
Martina Buoncristiani
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