La globalizzazione neoliberista non piace più se non porta vantaggi
Quando si parla di globalizzazione, ci si riferisce a un fenomeno economico che ha caratterizzato l’umanità, direttamente collegato al pensiero politico e alla storia del capitalismo. Il modello su cui storicamente si basa il pensiero sociopolitico ed economico dei paesi capitalistici più avanzati ha come obiettivo principale quello di diffondere le premesse fondamentali del mercato, ed è in questo frangente che si incomincia a parlare di ampliamento del mercato.
Il pensiero neoliberista, che si impone a partire dagli anni ’80 e ’90 del XX secolo, si basa sulla progettazione di modelli e teorie impiegabili nelle relazioni internazionali e nella politica mondiale; di conseguenza tutto ciò si applica anche all’economia e gli effetti più visibili riguardano in primis l’aspetto commerciale.
Secondo i dogmi liberisti, lo scambio tra due paesi rappresenta uno stimolo fondamentale per la crescita generale in quanto, tutti i paesi coinvolti avrebbero accesso alle merci a prezzi più contenuti e, al contempo, ognuno dei singoli paesi avrebbe la possibilità di specializzarsi in settori in cui avere vantaggi competitivi, seguendo il processo di specializzazione produttiva.
In questo modo, tutto il sistema di mercato avrebbe grandi vantaggi.
Uno dei problemi, però, del modello di globalizzazione neoliberista è costituito dalla differenza di sviluppo economico interno tra i vari paesi: la classificazione geoeconomica individua infatti paesi mediamente o altamente sviluppati e industrializzati, paesi in fase di sviluppo e paesi arretrati o meno sviluppati a livello industriale. Per questo motivo, le ultime due tipologie di paesi rimangono subordinati, seppur con sfumature diverse, a un centro imperialistico che domina l’intero sistema economico mondiale.
La parte positiva della globalizzazione neoliberista consiste, invece, nel fatto che, in paesi in fase di sviluppo vengono investiti capitali nel settore industriale tramite la strategia della delocalizzazione industriale e, in teoria, dovrebbero dare inizio a uno sviluppo e a un avanzamento delle forze produttive industriali di quel determinato paese. Questo meccanismo assume, tuttavia, una nota negativa, perché, approfittando dei salari bassi e della probabile poca esperienza in campo industriale di questi paesi, vengono impiantate fabbriche che producono efficientemente, ma che rimangono isolate perché non fanno parte di una rete industriale nazionale strutturata e completa; inoltre, il personale che viene assunto non è adeguatamente preparato e qualificato.
Altro problema fondamentale è che sovente lo sviluppo industriale non viene accompagnato dalla creazione di infrastrutture, come vie di comunicazione, né di servizi sociali come istruzione o servizio sanitario per la popolazione.
Quindi, quei paesi in via di sviluppo in cui cominciano ad arrivare i capitali delle multinazionali, in effetti, attraversano una prima fase di sviluppo economico, i cui effetti però rimangono molto limitati e non riguardano l’aspetto più ampio dell’accrescimento del benessere sociale generale per quel determinato paese; il processo di sviluppo sociale viene così a bloccarsi nel momento in cui si permette al paese più sviluppato di massimizzare i profitti tramite la delocalizzazione industriale e lo sfruttamento delle forze produttive locali.
Da questo momento inizia un conflitto perché siamo di fronte a una sorta di imperialismo economico, in cui il paese più sviluppato, che ha investito capitale in quello in via di sviluppo o meno sviluppato, ha usato questo capitale non per far crescere quel paese sotto tutti gli aspetti possibili, ma solo per sviluppare determinate competenze che servono per ottenere i prodotti e le risorse di suo interesse, sfruttando così il paese in via di sviluppo.
Alla guida della globalizzazione neoliberista storicamente si sono posti gli Stati Uniti, tramite le istituzioni basate a Washington (Fmi e Bm) che ne hanno fissato le regole; la Cina però si è opposta a questo progetto, perché è riuscita a dotarsi di un’economia forte e ha accumulato capitali da investire. Sin dall’inizio, per la Cina è stata chiara l’idea di non diventare un’economia subalterna a quella statunitense; anche per questo motivo non ha permesso il controllo della sua economia agli Stati Uniti, ed ha utilizzato i capitali degli investitori esteri per avviare un proprio sviluppo interno, al fine di trovarsi, nell’arco di pochi decenni, alla pari con gli strumenti posseduti dei paesi più sviluppati, in termini di capitali accumulati e di tecnologia sviluppata.
La Cina non ha mai sfruttato gli investimenti esteri per arricchirsi, ma anzi li ha utilizzati non solo con l’aspirazione di svilupparsi, ma anche con l’obiettivo di raggiungere un’indipendenza tecnologica e finanziaria e dunque riuscendo a fuggire dalla trappola (Middle income trap) in cui cadono i paesi in via di sviluppo influenzati dalla logica fondante della globalizzazione neoliberista.
Infatti il sistema delle Joint Ventures, società a capitale misto metà straniero e metà cinese, ideato da Pechino per la prima fase di apertura agli investimenti esteri, aveva come fine quello di ottenere l’acquisizione di tecnologia e di sviluppare capacità manageriali. Inoltre la Cina ha imposto delle condizioni molto precise anche agli investitori interni: in qualsiasi ambito fosse avvenuto l’investimento, le risorse ottenute dalla parte cinese sarebbero state impiegate all’interno del paese. La combinazioni di questi ed altri fattori ha portato la Cina ad essere oggi la superpotenza manifatturiera mondiale che, da sola, produce circa un terzo del prodotto industriale mondiale.
Per rispondere e contrastare questo rapporto di forza che si è creato a favore di Pechino, gli Stati Uniti, dopo quelli introdotti da Trump nel 2018, nel maggio 2024 hanno deciso di aumentare notevolmente i dazi sull’import di alcuni prodotti a tecnologia avanzata dalla Cina che, infatti, passeranno dal 25 al 100% per le auto elettriche, per tutti i tipi di batterie dal 7,5% al 25, per la grafite, le terre rare e le gru nei porti dallo 0 al 25%, per le celle solari si passa dal 25 al 50%, per alluminio, acciaio e semi conduttori dal 7,5 al 25%. Per mezzo dell’adozione di politiche protezionistiche gli Stati Uniti tentano di rendere i prodotti cinesi meno competitivi sul mercato proprio aumentando i dazi.
Secondo il mio parere personale l’aumento dei dazi è un tema molto complesso, perché l’uso di essi come strumento politico può complicare le relazioni internazionali, creando forte tensione tra i paesi, questa ostilità può innescare guerre commerciali che andrebbero a danneggiare l’economia mondiale senza portare alcun beneficio. In sintesi, pur riconoscendo le motivazioni che possono spingere un paese a implementare i dazi, è necessario considerarne attentamente gli effetti su scala globale sia in termini di aumento delle tensioni che di spinta verso la deglobalizzazione.
La posizione acquisita dalla Cina ha evidenziato che gli equilibri di competitività previsti dagli Stati Uniti all’inizio della globalizzazione, si sono oggi invertiti e il libero scambio, ad oggi, favorisce la Cina, tecnologicamente più avanzata in alcuni campi, e penalizza gli Stati Uniti.
Pertanto, alla luce di quanto sta accadendo la mia considerazione personale rispetto all’adozione delle varie politiche economiche, ritengo che la scelta di una determinata corrente di pensiero economico scaturisca esclusivamente dall’interesse nazionale. Infatti, gli Stati Uniti fino a che detenevano una maggior competitività produttiva sostenevano il libero scambismo e lo hanno imposto a livello globale, ora che vengono superati dalla Cina adottano politiche protezionistiche, contribuendo ad accelerare il processo di deglobalizzazione ormai gradualmente in atto da un decennio.
Alessandro Hajaoui (classe 2C AFM – ITE)
Attività svolta nell’ambito del progetto Contemporanea..mente
Lascia un commento