Aby Warburg è stato certamente uno tra i critici e gli storici dell’arte più eclettici e, al contempo, importanti dei due secoli passati. Il suo nome è legato alla celebre scuola d’arte di Londra e ai numerosi studi sull’arte rinascimentale e manierista italiana; il libro che sta per essere presentato potrebbe tuttavia non rientrare nel canone della letteratura artistica poiché in questo testo (risultato di una conferenza del 1923) l’autore dimostra l’importanza, all’epoca crescente, delle scienze socio-antropologiche.
“Greci nella prateria”. Questo è il titolo di uno dei capitoli della postfazione di Ulrich Raulff (giornalista tedesco e studioso di Aby Warburg) che correda il libro, sicuramente quello che meglio riassume e spiega il significato profondamente junghiano dell’opera.
Per spiegare il significato dei simboli che tappezzano la vecchia Europa, la decisione più saggia sembrò quella dipartire alla volta dell’Arizona: così, armato di fotocamera, Aby Warburg documentò presso il popolo dei Pueblo il culto dell’animale che più ha suggestionato la mente religiosa dell’uomo, il serpente. Ma cosa significa “Greci nella prateria”?
Warburg era andato in cerca dell’infanzia del pensiero umano. Si partiva dal presupposto che il pensiero si evolvesse, crescesse come l’essere umano stesso e quindi non stupiva l’idea che “i primitivi del Nordamerica potessero avere la chiave d’accesso ai primordi della civiltà europea”. L’indagine di Warburg si prefigura così come la ricerca e la catalogazione della prima e più pura forma di lògos: il simbolo. Al di là del mito, dell’idolo o della danza rituale soggiace un’idea comune, un’idea nata dal nervo stuzzicato dalle paure e da desideri ancestrali; in questo modo Warburg afferma lapidariamente che Atene e Oraibi sono parenti; questa parentela è legata da un filo rosso potentissimo e quel filo è appunto il ricco dizionario simbolico, a quanto pare comune al genere umano.
Il più potente tra i simboli è quello del serpente. Non fa differenza che strisci in una kiva (luogo delle assemblee religiose per gli indiani Pueblo, fortemente legato alla simbologia del serpente e in cui si trovavano anche esemplari vivi del rettile) o nei penetrali del tempio di Asclepio; è il significato genuino che interessa. L’analisi si fa più approfondita perché, da un lato, il serpente è lo strangolatore, è prefigurazione della morte, degli Inferi da cui proviene e, dall’altro, è la scienza primitiva, la salvezza, lo stesso mondo dei morti con cui, stavolta, si può comunicare. È nell’opposizione Laocoonte-Asclepio che Warburg riassume la duplicità di questo simbolo ma la ricerca archetipica non si ferma qui. L’idolo, ossia l’immagine che si mescola intimamente alla divinità, si palesa anche nella Bibbia: Mosè nel deserto alza una serpe affinché nessuno tra gli ebrei muoia del suo morso; Eva corrotta dalla serpe nega all’uomo il paradiso terrestre. Così Mosè sta a Eva come Asclepio sta a Laocoonte. Eppure proprio la Bibbia dovrebbe essere la catarsi dall’idolo. La lotta dei primi profeti fu quella contro il simbolo e contro l’immagine: a Dio si arriva colla preghiera, ma sembra proprio che il symbolon sia il collegamento più spontaneo tra il soprannaturale e l’uomo.
Spesse l’immagine primordiale e divina è soggetta a limitazioni. L’imitazione sovrappone e unisce le dimensioni del reale e dell’astratto: con l’imitazione si padroneggia il dio stesso giungendo a un punto in cui la magia si confonde con la religione; perciò, se il serpente striscia sull’immagine del tuono, esso scatenerà la pioggia e, se il cacciatore si traveste da antilope, riuscirà ad ucciderla. La razionalità del profeta biblico – o dello Zio Sam – sta allora nel distruggere il legame tra queste due realtà, nel sostituire casualità a causalità e nell’annientare il rapporto tra la volontà umana e le circostanze degli eventi; non per nulla symbolon si può tradurre con legame.
Da questa analisi Warburg può trarre la sua sconvolgente e intrigante idea di arte, un’arte governata dalla mimesi e da reminiscenze ataviche, in cui ogni cosa ha un significato lontano, in cui tutto è un symbolon; un’arte governata non dall’artista nella sua individualità ma da una mano invisibile che muove in modo ubiquo tutti gli uomini e nella quale le forme possono essere particolareggiate e rifinite in modi diversi, ma le spinte e i sentimenti sono comuni. La storia dell’arte è un catalogo di immagini in cui, con i più svariati toni e le più svariate sfumature, si ripropongono gli stessi simboli. Tuttavia l’arte proprio per questo può divenire il legame dell’uomo con sé stesso, il mezzo per cui l’uomo può comprendersi, la fonte prima dell’antropologia. Ogni pennellata e ogni colpo di scalpello sono guidati dalla mente primitiva dell’uomo, uguale in tutti i luoghi e forse duratura in tutte le epoche. Per questo Warburg, nel suo esempio di relativismo culturale, non dà giudizi estetici, va al di là della forma, cerca di capire l’essenza dell’immagine: vuole scavare oltre il marmo del Laocoonte e vedere di che materia sia veramente scolpito.
Lorenzo Antonelli (IIIA)
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