Il sacro bosco di Bomarzo, detto anche “Parco dei Mostri” per le statue mostruose e le stupefacenti creature che lo caratterizzano, si trova nel cuore dell’Etruria, non lontano da Viterbo. A volerne la costruzione fu Pier Francesco Orsini, alias Vicino Orsini, signore di Bomarzo dal 1542 al 1585, che intorno al 1552 ne affidò l’incarico all’architetto e antiquario Pirro Ligorio, che aveva progettato anche Villa D’Este a Tivoli.
Il parco è estremamente suggestivo; una sorta di “locus amoenus” circondato da alberi immensi e profumati e da ruscelletti e cascatelle. Nonostante ciò, non è affatto un ambiente sereno e tranquillo ma anzi proprio la presenza di questi mostri disseminati ovunque, talvolta nascosti nella penombra come se tendessero un agguato al visitatore, manifesta la profonda inquietudine interiore e spirituale che connotava l’epoca in cui è stato realizzato. Costruito in piena Controriforma (da poco si era svolto il Concilio di Trento che avrebbe dovuto appunto conciliare cattolici e protestanti), il parco è una delle manifestazioni più importanti del manierismo e del genere del “grotesque”, un luogo unico in cui lo spettatore può perdere e ritrovare se stesso in una miscela perfetta di mitologia, arte e letteratura.
All’ingresso del parco accolgono i visitatori due Sfingi, presenza inquietante, poste simmetricamente una rispetto all’altra ed entrambe guardiane di due epigrafi una delle quali recita:
“Tu ch’entri qua pon mente parte a parte et dimmi poi se tante maraviglie sien fatte per inganno o pur per arte.”
Il visitatore viene ammonito sin dall’inizio a prestare attenzione alle “maraviglie” presenti e spinto a comprendere se esse siano frutto di un inganno o di arte. Orsini è quindi ben consapevole della grandezza e dell’unicità del suo progetto.
Proseguendo il percorso secondo l’itinerario della mappa, si incontrano diversi personaggi appartenenti alla mitologia – alcuni dei quali peraltro non precisamente identificati – come Pan-Giano, Proteo Glauco, Ercole-Caco, le Grazie, Pegaso, una Furia, Echidna, Persefone e così via, oltre a diversi animali mitici. Particolarmente interessanti sono anche le strutture architettoniche come la Casa Pendente, un edificio pericolosamente inclinato che allude nuovamente all’instabilità morale e religiosa di metà ‘500, il teatro a esedra simile nella struttura a quello greco e, infine, la presenza quasi ossessiva dei “termini”, ovvero dei busti posti in alcune zone per segnalarne i confini. Utilizzati già ai tempi dell’antica Roma e addirittura divinizzati nella figura del dio Terminus, i “termini” sono caratteristici anche di Villa Lante, costruita nei dintorni (a Bagnaia) da un nobile di Viterbo.
Ma le opere che più colpiscono l’osservatore e che possono rappresentare una sintesi dell’intero parco sono principalmente tre: lo Scontro dei giganti, la Fontana Pegaso e, infine, la Bocca dell’Inferno, che rappresenta l’attrazione principale.
La Gigantomachia si trova quasi all’inizio del percorso e colpisce subito per la sua maestà e grandezza, per la sproporzione dei corpi e per la fisiognomica grottesca ma alquanto realistica dei volti. Anche qui troviamo due iscrizioni lapidarie: una afferma che “Se Rodi altier già fu del suo colosso/ pur di quest’il mio bosco ancho si gloria/e per più non poter fo quant’io posso”, paragonando il colosso a quello di Rodi ed esaltandolo; nella seconda invece, molto danneggiata, troviamo la parola “Anglante”, che alcuni studiosi hanno riferito al Cavalier D’Anglante, come Ludovico Ariosto definisce Orlando nel suo “Orlando Furioso”. Secondo questa interpretazione la battaglia tra i due giganti raffigurerebbe proprio l’eroe ariostesco che, in preda al “furor” amoroso suscitato in lui dalla scoperta che Angelica ha scelto come amante il saraceno Medoro, fa a pezzi un povero contadino capitatogli fra le mani. Secondo altri invece sarebbe da pensare all’episodio in cui Caco, figlio di Medusa, avrebbe rubato alcuni buoi a Ercole, scatenando così la sua ira.
Procedendo poco oltre, troviamo la Fontana Pegaso, situata proprio al centro di uno spiazzo e circondata da massi e alberi. Il cavallo Pegaso è raffigurato mentre spicca il volo, con le zampe anteriori sollevate e le ali dispiegate. Anche qui i riferimenti alla mitologia e alla letteratura non sono pochi: secondo alcuni gli zoccoli del cavallo alato sfiorano proprio l’Elicona, la montagna sacra dove il poeta Esiodo afferma di aver ricevuto l’investitura poetica da parte delle Muse, dando vita alla fonte dell’Ippocrene. Secondo altri invece si tratta ancora di un riferimento al poema dell’Ariosto, e l’animale rappresentato non sarebbe altro che l’Ippogrifo che portò Ruggiero nel regno della maga Alcina. Questa tesi è accreditata dalla presenza di un tronco di mirto sulla base della fontana, che potrebbe far riferimento ad Astolfo che, trasformato in mirto proprio da Alcina, avrebbe la funzione di mettere in guardia Ruggiero contro la maga stessa.
La visita al parco si conclude con l’inquietante Bocca dell’Inferno, le cui fauci profonde e oscure emergono da un muro di pietra. Le narici sono dilatate al massimo, gli occhi spalancati in un terribile e disperato urlo silenzioso: siamo all’apice del grottesco. Per raggiungere la Bocca è necessario salire dei gradini, come se stessimo entrando in un tempio; questo luogo è quindi il più sacro dell’intero bosco. La scritta “Ogni pensiero vola”, presente sulla sinistra figura, è ripresa sicuramente dal famoso verso dantesco “Lasciate ogni speranza voi ch’entrate” che viene qui completamente risemantizzato in quanto Vicino Orsini sembra con essa voler affermare che in questo luogo è possibile dimenticare le preoccupazioni e gli affanni, che la speranza non va perduta poiché viene proiettata in una dimensione soprannaturale, e che l’unico modo per conciliare noi stessi con il nostro spirito è lasciarsi trasportare dall’esoterismo del bosco. Ma perché ciò accada è necessario un atto di coraggio: lo spettatore deve avere l’ardimento di oltrepassare le fauci appuntite del mostro, deve abbandonare ogni principio su cui faceva prima affidamento per scivolare nelle tenebre e nell’ignoto più assoluto. E non è detto che possa farne ritorno.
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